sabato 29 giugno 2019

TI AMO

Non se ne era accorto subito, l’emozione era stata così intensa da lasciarlo senza parole. Si era preparato, aveva immaginato molte frasi, molte facce, molti atteggiamenti. Aveva trascorso l’intera notte precedente a inventarsi un modo per dirglielo: per mesi, guardandola, i sogni e il desiderio lo avevano scosso senza pietà, bisognava attraversare il confine tra l’apparente amicizia, tra la consuetudine pacata e protettiva di un sorriso con mille discorsi vacui, e una vera dichiarazione d’amore. Ma capire non coincideva con il fare, la notte era trascorsa, l’alba lo aveva trovato inutilmente sospeso come poche ore prima, la mattina era diventata un cilicio e adesso lei era lì davanti. E lo guardava quasi preoccupata senza un gesto. Non se ne era accorto ma aveva gli occhi pieni di lacrime. Che importanza poteva avere adesso cercare le ragioni di un’emozione che covava dentro da tempo? 
Il confine lo aveva lì davanti, era lui il pioniere e quel sentimento il territorio sconosciuto da attraversare. Sentire la sua voce pronunciare – ti amo – fu un tuffo nel cuore di una nuova vita. Lei lo guardò e in silenzio abbassò gli occhi.

giovedì 27 giugno 2019

L'ESPRESSIONE GEOGRAFICA

L’ espressione geografica del Metternich, dopo 95 anni di regime monarchico sabaudo con una deviazione fascista di venti anni, dopo 71 anni di regime repubblicano, in due regioni del nord vota e chiede l’autonomia. Ad essa si arriva dopo una centralizzazione feroce che in alcuni casi particolari ha dovuto far i conti con casi particolari: terre di confine e un’isola lontana al centro del mediterraneo. Situazioni su generis derivate da storie sui generis e risolte in modo provvisorio. L’autonomia siciliana figliastra del senso di diversità già presente nell’aristocrazia siciliana fu un bel regalo confezionato in fretta e furia dallo stato centrale appena uscito dalla guerra per i riottosi e mafiosi politicanti isolani, Un regalo pieno di dolciumi presenti e futuri, di privilegi assurdi che diventarono poi veleni mortali. Di questa autonomia, enorme sulla carta, imbelle in realtà, si è avvantaggiata solo una piccola ma rumorosa fetta di gente, i siciliani viaggiano ancora su ferrovie da inizio ottocento, hanno più forestali che in Trentino, strade piene di buche e un’emigrazione giovanile da sceneggiata napoletana con l’infame in bella vista. L’espressione geografica resta un termine crudele e beffardo ma è vera! L’Italia è una lunga penisola proiettata dalle Alpi all’Africa settentrionale, popolata da genti diversissime per storia costumi abitudini e clima; la diversità è riflessa nei secoli da stati e staterelli spesso in lotta tra loro, senza mai un vero anelito diffuso di nazionalità condivisa. La cosiddetta lotta per l’unità nazionale è stata sempre appannaggio di una ristretta elite culturale dagli anni delle prime guerre di indipendenza in poi. L’unità sarebbe più corretto chiamarla col suo vero nome: allargamento della struttura statale del Piemonte su tutto il resto del territorio. Non piacque nel 1870, non piace a nessuno nemmeno ora. Però è stata creata una storiografia-agiografia ad hoc perché da qualche parte si doveva pur cominciare, nel frattempo abbiamo attraversato guerre coloniali, lotta al banditismo (i briganti guarda caso erano tutti meridionali) guerre mondiali, resistenze e una politica di così basso profilo da restare inebetiti Il nostro libro Cuore è un composè fantastico di gioia e dolore, poesia e bassezze indicibili, voli ed entusiasmi e divisioni radicate da secoli. Siamo ancora un’espressione geografica! Per chi cammina per le strade di Palermo o Siracusa o Catania e due giorni dopo passeggia per Piazza Carlo Alberto a Torino o piazza Duomo A Milano, per chi abita in val d’Intelvi o chi vive a Lampedusa, per quelli che guidano tra le strade dell’Umbria o attraversano la pianura lungo il Po, per tutti costoro e altri ancora è impossibile pensare di vivere nella stessa Nazione. Possiamo far finta di esserlo, possiamo fingere molto bene ma restiamo un’espressione geografica. Questo non vuol dire che popoli diversi con gusti e abitudini diverse non possano scambiarsi conoscenze e favori, non debbano provare a conoscersi, ma una nazione è ben altra cosa. Una nazione è unità di regolamenti, è base storico-culturale comune dalla quale discende fisiologicamente solidarietà popolare nella buona e nella cattiva sorte. Spero di essere stato chiaro: non è così difficile capire che "forza Etna"stride con questo concetto, che non si affitta ai meridionali di 50 anni fa ( ma non è del tutto scomparsa l’idea di base) non è compatibile con esso. Non si tratta di stupido campanilismo, si tratta di mondi diversi, provare per credere. Io l’ho fatto. Se andiamo a vedere le cronache di questi ultimi anni cosa notiamo? La prima fondamentale proposta del Veneto e della Lombardia è quella di avocare a sé il 90% delle entrate fiscali. Poi il resto ed è un resto che nemmeno Cattaneo nel 1848 pensava possibile. Ma Cattaneo c’era e la sua idea di federalismo è ancora perfettamente presente nei lumbard e nei veneti di oggi. Essi non amano i crucchi ma, dovendo scegliere, tra Piemonte e Vienna credo che sceglierebbero la seconda. Oggi non avrebbero dubbi a legarsi in tutto e per tutto con l’Austria, esattamente ciò che volevano a metà ottocento...e Verdi se ne faccia una ragione! Prendersi il grosso del malloppo e gestirselo in proprio è occasione ghiotta, se a questo aggiungi il pessimo uso fatto del denaro pubblico in una regione come la Sicilia la discussione è chiusa. Riuscirebbero i polentoni a far meglio della regione con sede a Palermo? Ad evitare sprechi assurdi e privilegi fantastici? Vedere per credere. 
Due anni fa sotto la mole Antonelliana a Turin mi son sentito dire da un compito bifolco e signora che son stati loro a fare l’Italia! A ingrandire il territorio dei Savoia risposi io! Alzarono i tacchi, poi passai davanti al ristorante il Cambio davanti a Palazzo Carignano e mi immaginai il conte di Cavour fare il solito cenno al cameriere là sotto per dirgli di preparare un tavolo. Il Piemonte starebbe bene per i fatti suoi, idem la Lombardia magari con un buon trattato commerciale con la Svizzera. Il Veneto e il Friuli non han dimenticato la Serenissima, Trieste è più austriaca di quanto si pensi, mitteleuropea direi e poco italiana. Genova ad onta di Mazzini sarebbe per tutti: una città stato aperta a mille possibilità come qualunque città di mare si rispetti. Della Toscana non so dire con certezza, hanno così tanti asti i toscani tra loro, parlano l’italiano loro quello dell’Accademia della Crusca, di Dante e dei panni lavati in Arno…L’Italia? Mah, forse riveduta e corretta. Roma è ladrona, ruffiana, papalina, troppe cose per essere UNA, Quelli che furono i territori dello stato Pontificio comunque farebbero qualsiasi cosa per darle un calcio in culo a perenne memoria dei centurioni papali dell’ottocento. Napoli è ancora Regno delle due Sicilie, cultura, povertà, musica furbizia, accomodamento ad arte, Camorra imperante, legge dello stato assente e un’infinita malinconia del principe De Curtis. Poi c’è il sud e il sud del sud, c’è il silenzio dei latifondi, del Pollino e del Tavoliere, la luce del Salento e l’Oriente a due passi. L’Italia è lontanissima, la taranta presente. Devi passare lo stretto per entrare nel continente Sicilia e dovresti studiare a lungo e senza preconcetti da settentrionale leghista per capire come e perché, pur essendo la vera metafora e chiave di tutto (Goethe) l’isola non è mai stata Italia! 
Trovi l’autonomia se ci sono basi veramente sentite e comuni altrimenti trovi la secessione. Trovi uno stato federato se prima ce n’è uno veramente unitario e funzionante! Altrimenti non trovi altro che un’espressione geografica. Il conte di Cavour lo sapeva benissimo, erano gli altri a far finta di non capire, Camillo lo sapeva per intuito da vero francese qual’era, pur senza aver mai visitato la penisola sotto Firenze sapeva che di Italie se ne dovevan fare almeno tre con buona pace dei patrioti. Invece ne abbiano una finta, piena di dubbi e di equivoci, esterofila per antonomasia, con una parte di popolazione che guarda con sufficienza le altre. Tra poco non avremo più nemmeno questa ma lascio a voi il compito di descriverla, io appartengo ad un altro mondo e ad un altro paese.

venerdì 21 giugno 2019

PROFUMO D'ESTATE -

Ogni estate diventiamo maggiorenni ed è una sensazione indimenticabile, sgusciamo fra i nostri errori e le nostre vittorie, ce le rimiriamo e facciamo finta di credere che sia per sempre, condividerle con gli altri è una fede. L’estate è sempre l’identica rivelazione che sale sul palcoscenico con presentatori diversi, la sua apparizione suscita reazioni varie che vanno dagli applausi scroscianti all ’incredulità silenziosa, ma la sua bellezza è sempre maestosa, a me lascia ogni volta incantato, senza fiato. Nei suoi paesaggi aperti, nei suoi colori decisi e in quel senso di prospettive eterne e ripetute che ci fanno ritornare sempre all’idea che tutto è possibile, che è solo questione di tempo e i cieli si apriranno per lasciarci vedere l’azzurro e le mille strade che lo attraversano. Abbiamo di nuovo diciottanni e nessuno potrà cambiare le cose, è come il primo amore, se ne andrà ma cambierà la nostra vita per sempre.

ESTATE


Estate
Le parole sono suono
amano il suo abbraccio
dividono i giorni
ammantano le notti.
Frinire intontisce l’estate.
Mia madre mi disse che stavo
sull’uscio
con lo sguardo perso
dentro il loro tziiitziiiitziiiiiitziiiiiiiiiiii
per ore
per giorni.
Per una vita.
Frinire lascia sempre aperta una porta
accoglie i sensi diversi
il giallo dell’arsura
il verde misurato
e antico degli ulivi
che finisce nel blu lontano del mare.
Le parole sono cicale
alberi
aria tersa o imbarazzata
di nuvole
segni
lacrime e dita scivolate
sulle spalle di un abbraccio.
Commiato e sussurri
per non cessare l’ipnosi
di un sogno.




martedì 18 giugno 2019

ROSSO DI SERA -

Passammo un gran tempo di noi a raccontarci bugie per coprire la verità dei sensi; il giorno cadde quando le sfiorai le ginocchia, la mia vita cambiò quando le toccai i seni di ragazza. Mentire per non morire, per prolungare all’infinito la prima volta dell’amore, e tenersela per sé. Un bacio ansioso prima, lunghissimo dopo.
- Me ne dai un altro?
- Sì, è stato bello.
- Quanti ne hai dati finora?
Non le dissi che era il primo. Non le dissi più nulla e mi feci portare via dal sogno. La notte, tardi, mi leccai la ferita calda di quelle labbra e sciolsi il tempo delle parole su una pagina: la prima. Di sera penso ogni tanto alla rincorsa affannosa e febbricitante di questa condivisione. Suona con un’eco serena sulla nudità di questa solitudine; se me ne libero resto, oggi come ieri, nudo e vero.

lunedì 17 giugno 2019

CANTI BAROCCHI

La grande villa era già sparita da più di ventanni. Le bombe made in USA avevano artigliato anche la zona residenziale di viale della Libertà ma gli inquilini se ne erano andati da molto tempo. La contessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò non avrebbe potuto vivere con la dignità che le competeva in quella Palermo del primo novecento dopo essere stata abbandonata dal marito Giuseppe per una giovane e procace ballerina; lui era fuggito a Sanremo ma la contessa era rimasta a illanguidire tra i ricordi e le angustie di una società in cui lo sfacelo iniziato con l'unità d'Italia e la fine dei Borboni rendeva sempre più lontana la luce che era stata dei Gattopardi di un tempo. Aveva più volte confidato alla sorella Beatrice che per lei gli spazi vitali diventavano sempre più angusti e che non intendeva crescere i tre figli in quella condizione. Beatrice le ricordava che per gente come loro ( era la madre dello scrittore Tomasi principe di Lampedusa) la città, per quanto degradata, restava pur sempre l'unico luogo in cui abitare...a meno che non ci fosse l'alternativa anche economica di migrare in altri luoghi dell'Europa che contava. I tre figli erano una cerchia protettiva, un patrimonio, l'unico, che esulava da tutto il resto. Lucio era il minore, timido e introverso coltivava già da allora molti interessi letterari e musicali: le sue pagelle al liceo Garibaldi parlavano chiaro, i voti altissimi ( molto rari a quei tempi) in greco e latino erano testimonianza di un intelletto avido di conoscenza e lucido nella sua capacità espressiva. Ma era il carattere a limitarne gli effetti e forse anche una certa sudditanza psicologica verso la madre, sudditanza terminata solo con la morte di lei. L'ambiente sociale della nobiltà palermitana di quegli anni era ridotto come numero ma elevato nei suoi interessi, Il circolo Bellini possedeva un tenore culturale di grande spessore e l'adolescente Lucio vi era già conosciuto come "il musicista filosofo". Il circolo aveva tra i suoi frequentatori anche Tomasi che spesso si divertiva a prendere in giro il cugino che certamente era un pedantissimo e ricercatissimo compositore e il Tomasi amava schernirlo con la frase " mio cugino compone una biscroma al giorno". In Sicilia l'elitarismo si pasce dell'apparente mediocrità umana circostante, ma è un'illusione fascinosa, la letteratura dei siciliani è sempre stata europea perchè "europee" e vaste sono sempre state le loro biblioteche.
Ma niente potrà mai spiegare la cifra esistenziale della famiglia Piccolo che agli inizi degli anni 30 decise di "sparire" dal mondo cittadino e esiliarsi nella villa di campagna di Capo D'Orlando. Lucio a quell'epoca aveva 31 anni. Se esiste uno stereotipo sulla Sicilia quello gattopardesco è senza dubbio il più "nobile" e ricercato, è anche il più sciocco e inadeguato; la sicilia colta e profonda è sempre vissuta lontano dai salotti e dalle ricercatezze formali. Tomasi, cugino di Lucio, ebbe una gran fama postuma per il romanzo che incastonava in un diadema perfetto la vita e l'amore, la storia e la politica, il fisico e il metafisico, una gloria inutile per l'autore e giunta in ritardo. Molte delle pagine del Gattopardo, furono riviste e completate a Villa Piccolo, si vociferò a lungo di alcuni asprezze tra i due cugini nate da contese letterarie . Il romanzo di Lampedusa nasceva al sole infuocato e assorto di un meridione antico, la poetica di Lucio Piccolo invece viveva nella penombra di una sera incipiente o di un'alba sospesa. Lucio è ancora un poeta clandestino, le sue opere viaggiano tra le mani di pochi, la sua scrittura è lontana anni luce dalle frodi editoriali e commerciali. Che importa? Gli anni dell'adolescenza e della gioventù a immergersi nel grande fiume della cultura e letteratura europea, un istinto precoce e onnivoro verso l'espressione letteraria. Poi il silenzio...la natura come unica interlocutrice e il grande abbraccio della solitudine.
Ancora una volta mi rendo conto di quanto io sia inappropriato a svolgere recensioni letterarie in senso stretto, quanto sia incapace a sovrapporre la mia voce a quella di un altro: «I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li ri­chiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ». 
“La casa era quieta, il resto del mondo lontanissimo. Fu così che mi resi conto come per villa Piccolo passasse un meridiano come a Greenwich il meridiano della solitudine “. Ebbe a scrivere qualcuno sul mondo della villa.
" Se noi siamo figure di specchio che un soffio conduce senza spessore né suono pure il mondo dintorno non è fermo ma scorrente parete dipinta, ingannevole gioco, equivoco d’ombre e barbagli, di forme che chiamano e negano un senso – simile all’interno schermo, al turbinio che ci prende se gli occhi chiudiamo, perenne vorticare in frantumi veloci, riflessi, barlumi di vita o di sogno – e noi trascorriamo inerti spoglie d’attimo in attimo, di flutto in flutto senza che ci fermi il giorno che sale o la luce che squadra le cose". Da Gioco a nascondere 
Infine andare a Villa Piccolo, da soli e senza altri interlocutori che non la propria coscienza e sensibilità, andarvi e rileggere
«Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…». Da Plumelia. 
Poichè il Sud sta stretto dentro i normali abiti letterari e la cifra interpretativa può nascere solo dalla comprensione intima della sua terra.

giovedì 13 giugno 2019

CASA MIA


Inutile dissidio delle ultime
Cinquantotto estati.
Parole esitanti, stonate,
risibili caricature del mio
sosia che malamente recita
il ruolo che fu di altri.
Quando certa sarà stabilita
La mia definitiva
inutilità
vecchiaia e saggezza mi riporteranno
a casa mia.
La porta sarà aperta,
abbraccerò le pareti bianche
mi confonderò con esse.
E infine non ci sarà più nessuno
che mi dirà che troppo grande
è stata la malinconia di vivere.

PORTO PALO A CAVALLO DEL VENTO

Sta storia pi’ diri a verità, s’avissi a cuntari tutta in sicilianu comu tanti autri, ma fussi cosa longa e difficili ppi chiddi ca ‘un canusciunu u dialettu: piccatu, avissi ancora u ciavuru di mari e rosmarinu, di ventu e sabbia. Cuntintativi.”

C’è chi dice che esiste un limite a tutto, una sorta di misura che alla fine ci contiene e, forse, ci protegge; io riparto dal sud, io torno al sud, una latitudine infinitamente più meridionale di quella giornalmente raccontata dai media. Ricomincio da un’idea, sempre la stessa, da una sensazione complessa che abbraccia molte altre emozioni: per comprenderla è necessario amare il silenzio e la musica che vi si nasconde dentro, da quelle note sarà poi più semplice leggere l’intera partitura. Portopalo e appena più a nord del Capo delle correnti, un’area che si trova tutta sotto la latitudine di Tunisi in Africa, prendete una cartina geografica e guardate la zona più meridionale della Sicilia a sud di Di Siracusa… Portopalo è fuori da tutto e svanirà un istante dopo aver letto queste righe. Non c’è ragione perché vada diversamente, il mare, il vento… il sale sono cittadini ovunque, viaggiano ovunque. Il pantano Morchella, qualche chilometro prima del paese, non è altro che un pezzo di mare entrato nella terra, separato dalla costa da una stretta striscia di sabbia e rocce. L’acqua salata entra perché la terra e più bassa rispetto al livello del mare, una specie di Olanda sotto il sole africano; i salinari fanno passare il mare da una saja, un canale scavato a colpi di vanga, fino a alle vasche del pantano e aspettano. Sarà il sole far evaporare l’acqua quando il sale comincia ad addensarsi lo passano in un’altra vasca per concentrarlo di più e così via fino a quando il sale quagghia e loro lo raccolgono con le pale, neri e bruciati dal sole mentre bestemmiano e sembrano pazzi. Perché il sole li cuoce e il sale gli fa bruciare le carni. Questo è il motivo per cui nessuno vuol fare più il salinaro: i giovani sono altrove da tempo e i vecchi piuttosto che invecchiare nel sale preferiscono ‘ntrizzari cufini, intrecciare ceste con le foglie delle palme nane che crescono rigogliose da queste parti.
Ce ne sono anche sull’isola di Capo Passero che è là, in faccia alla tonnara; una volta c’era una strada che passava il mare e si poteva arrivare senza barca. I ruderi del forte che si trova sull’isola sono quelli della fortificazione fatta costruire dall’imperatore Carlo V per difendersi dalle scorrerie del pirata turco Mohamed Dragut: di lui è rimasto un nome deformato dal tempo e dalle leggende come queste rovine sull’isola, Mammatraju, il castigatore, l’uomo nero che le madri evocano per tenere a bada i ragazzini troppo turbolenti. Il forte fu distrutto dal turco e adesso c’è solo vento e gabbiani, però è bello starsene là sopra e pensare all’Africa, alla Grecia, a tutti i luoghi nascosti in quella striscia piccola piccola dove il mare e cielo si ‘ncucchianu. Tutti qua pensano di partire ma non succede mai, si diventa una cosa sola col blu del cielo e del mare, una tinta unica che tiene tutti chiusi al suo interno. La strada lungo la costa che conduce al piccolo borgo marinaro un tempo era punteggiata da case di pescatori dai colori delicati: azzurro, rosa, giallo paglierino e bianco: quando in Sicilia vivevano insieme cattolici, musulmani, greco ortodossi ed ebrei, questi colori servivano per indicare la religione di ogni famiglia, ma non contava quale Dio pregavi, serviva solo la tua abilità a tirare il pesce dal mare, a fare fruttare la terra o anche solo ad aggiustare le reti o fare ceste con le foglie della palma.
Dentro il paese non c’è nulla, in un giorno come questo di fine inverno non troveresti niente da ricordare guardandoti attorno, Portopalo non è un luogo turistico eppure possiede il più originale segnavento per campanile che io abbia mai visto: un pesce spada di latta. È una storia antica, terminata nel 1965, una storia di tonni e tonnare legata a una forma di pesca ormai estinta in tutta la Sicilia. Quando ancora si faceva la mattanza gli occhi di tutti stavano puntati sul segnavento, e quando il pesce spada si metteva sul grecale, allora voleva dire che era ora di parari la camera della morte perché i tonni entravano nella tonnara. Era uno spettacolo e tutto il paese aveva che fare da marzo ad agosto: preparare le reti, sistemare le barche e i magazzini, salare i pesci. Poi i tonni non vennero più: si disse che la colpa era dell’inquinamento marino, si disse poi che la responsabilità l’avevano i grossi pescherecci che calavano i consi in mare aperto e decimavano i branchi prima che arrivassero sotto costa. Il segnavento gira ancora, si accorda al vento, racconta storie che nessuno ha più voglia di ascoltare. Le vedo ancora benissimo volteggiare verso la battigia col suo eterno andirivieni, i miei occhi persi nel cielo: lo rivedo perfettamente mentre aspetto che il sole tramonti all’isola delle correnti. Si apre il sipario: c’è un gran cannistru di rosi e di ciuri, la notti s’apri e lujornu si chiuri.
Una alla volta spuntano tutte le stelle e il faro si accende e, se ti metti a cavallo della luce passi il mare e arrivi in Africa.

Io che campo all’acqua e al vento ci credo che un jornu giudica all’avutri e l’ultimo giudica a tutti, perché semo tutti ‘nsunnati, campiamo con la testa nell’aria e se casca il cielo non ce ne accorgiamo. Ma forse questo vogliono quelli che comandano, che dormiamo un sogno che duri tutta la vita; si scantanu che sennò…altri Vespri e altre rivoluzioni. E’ destino campari come auceddi e morriri comu passarieddi, senza che nessuno si nni adduna.

mercoledì 12 giugno 2019

LE MURA DELLE CATTIVE

FOTO V. RUSSO
Se fossi uno storico di livello, uno come Villari, ad esempio, oggi, affacciato da questa balconata, direi che essa e tutto quel che vi sta attorno, sono l’esempio perfetto dell’arretratezza e del distacco dall’altro mondo, dall’altra Italia, quella unita all’Europa. Se non avessi letto fin da ragazzo, se i miei non fossero stati quelli che sono ed io non avessi camminato su e giù per le strade di questa penisola vagheggerei facilmente facili scappatoie culturali per lasciare la mano. Se non mi fossi perso dentro certi tramonti e certi profumi e li avessi considerati solo parte di un bel viaggio esotico, oggi guardando il lungomare e la nave che sta per entrare in porto direi a me stesso: peccato tanta bellezza in tanto disordine. Ma parlare di Palermo, della mia città, del mio intimo è un’altra cosa, è un impresa non risolvibile in battute di forte impegno critico o di inesauribile affetto sconsiderato.
Queste sono le mura delle “cattive” cioè delle prigioniere del proprio stato di vedove e inavvicinabili signore del tempo che fu. Chissà come venne interpretato il nome in questi ultimi 3 secoli dalla gente che non masticava nemmeno l’abc della lingua latina? Importa poco, le Cattive continuarono per lungo tempo ad osservare, golose, la passeggiata sfarzosa di chi poteva uscire allo scoperto senza dar scandalo…salvo poi fare le medesime cose in modo più riservato dentro gli immensi saloni dei palazzi nobiliari. Palazzo Butera fa da sfondo e osserva severo la storia che è transitata da qui. Io provo a fare lo stesso e guardo tenendo poggiate le mani sul granito muschioso che delimita i bastioni. La storia prima vociante e adesso silenzio, la storia immota e quella che diede l’impressione di una gran corsa: tutta la storia insieme che preme su questo lungomare e nessuno vuole più ascoltare. Passarono le truppe garibaldine con le camicie piene di parole alte e romantiche, Patria, Unità, Italia…progresso. Prima di loro vicerè e imperatori, Normanni e Saraceni e altre parole, altre divise sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso mare. Il Gattopardo incontrò qui la sua ultima signora, quella vagheggiata da sempre, e i suoi simili riempirono di luci e di lussi i saloni di questo palazzo e dei palazzi vicini: carrozze e sete fruscianti, baciamano e valzer a due passi dalla miseria più degradata.
Ma io sono un uomo del secolo scorso, per qualche strana condizione non ripetibile vivo davanti a quest’epoca che crede di poter essere quella definitiva…è giusto così perchè la speranza rinnovabile è l’unica cosa certa per ogni nuova generazione. Sapeste quanti lo hanno pensato: dignitari piemontesi e ragazze del bel mondo fin de siecle, vescovi cardinali e politici della Dc anni 50. Nessuno di essi “cattivo” ognuno dimentico del giorno in cui, 9 maggio del 43, questa città spari sotto 420 fortezze volanti della USA AIR FORCE. Ah gli americani come sanno risolvere alla radice ogni problema: nessuno sa con certezza quanti furono quel giorno i morti , tredici… quindicimila, le bombe della Pensylvania come viatico alla scomparsa di un mondo inutile e fuori mercato. Qua davanti sono passate le camicie nere di Mussolini e i picciotti di Totò Reina, i compagni di Peppino Impastato e le auto blu di Raffaele Lombardo. La mia città che fra poco sarà di nuovo sotto quel blu cobalto delle sere d’estate che non hanno nulla di umano, Palermo punteggiata da campanili, guglie moresche e ville liberty. La mia città che digerisce tutto e non si può comprare a nessun prezzo,la mia maledetta lezione di storia, di principi e comparse, di gloria e fine di tutto. Palermo di Elvira Sellerio e di Totò Cuffaro, Palermo fuori dall’Europa e dalla Padania, Palermo che ricorda i diciotto anni dalla morte di Giovanni Falcone e l’Italia, lo Stato Italiano che incredibilmente sopravvive ad una strage che nessun paese civile avrebbe sopportato. “Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto” ( W. GOETHE). Un paradosso uno dei tanti, un ‘idea di nazione che passa dagli antipodi di Milano e Torino oppure la fine di quel sogno ( o menzogna) unitario che scavalcò lo stretto per tornare da dove era venuto. Non so perchè ma non mi riesce mai di parlare di Palermo: sono un siciliano del secolo scorso e come tutti i siciliani, sono al tempo stesso dentro e fuori gli eventi, sempre in preda ad astratti furori e amori infiniti, inquilino della Storia, pronto ad esserne sfrattato. U’ sapiti com’è no?

martedì 11 giugno 2019

PENSIERO UNICO -

La gran parte dei blog leggibili (gli altri sono inqualificabili chat) sono tutti orientati a sinistra, non esiste altra dimensione culturale, non esistono altre storie, non devono sopravvivere altre valutazioni intellettuali. Quindi io NON DEVO ESISTERE.
Per favore non fate la faccia indignata e non pensate neppure per un momento che il problema sia solo da attribuire alla mia incapacità di comunicare o reggere qualsivoglia confronto. Il problema attiene invece a una dittatura del pensiero e della monocorde comunicazione asfissiante ed è attualmente insolubile perchè abbiamo linguaggi terminologicamente e concettualmente distanti anni luce; si chiama divario generazionale acuito da non conoscenze storiche sociali e culturali che, permettetemi di dirlo, sono solo vostre. Vostre perchè non leggete, leggete poco o solo un certo tipo di letteratura. Asfittica, ideologicamente dittatoriale e aliena da qualsiasi tipo di dubbio.

domenica 9 giugno 2019

LA MIA PARTE DI LUCE -

Nessuno riuscirà a immiserire queste pagine e il loro autore, non perchè egli meriti più degli altri ma solo perchè custodisce la propria piccola parte di luce che altri hanno buttato via. Se scrivo vi amo, se vi rispondo cambio spesso le note in cacofonia, se vi leggo cresciamo, se accetto il confronto a priori ci sviliamo tutti

sabato 8 giugno 2019

CHI MI HA LASCIATO

Il mio blog è per tutti, nel senso che è aperto a chiunque voglia leggerlo ma in realtà non è a volte neanche mio ma di un altro Enzo che scrive per ricordarsi di esistere mentre bussano alla sua porta raccontandogli cose che con la sua esistenza non c’entrano nulla. C’è una dimensione a parte ormai tra quello che scrivo e quello che si intravede dietro la scrittura….Molti discorsi sono veramente fuori tema ma forse non è colpa di nessuno. 
E’ estremamente difficile comunicare in modo consono la propria dimensione intellettuale esattamente così come si forma dentro una persona e lo è altrettanto percepirla e “discuterla” laddove tale discussione abbia un senso che vada al di là di un affermazione di esistenza. Niente di ciò attiene al blog normalmente inteso, si avvicina semmai ad un’esperienza da diario cartaceo o addirittura da libro; nessuna di esse vuole sostituirsi nel mio caso a questo blog, qui ed ora. Ho subito un lutto gravissimo e profondo ma chi mi ha lasciato possedeva con naturalezza la misura e la simpatia, nel senso greco della parola, del comunicare e scriverne. Io appartengo ad una generazione più nevrotica e conflittuale che ha mantenuto il fuoco e i suoi effetti devastanti senza avere in cantina buona legna da ardere. Ma non mi rassegno. Mamma, vedi come tutto indifferente scorre? Non sono riuscito a fermare le nostre parole, queste come le altre della nostra vita. I tramonti ad occidente, i libri nella grande libreria di casa, le foto di famiglia e questo vecchio ragazzo che adesso è rimasto solo. Arrivederci mamma. Insegnami a scrivere daccapo con l’allegra pazienza che io mai ho posseduto, sarebbe il miglior modo di spiegare a certi personaggi che si spacciano per il sale culturale del mondo cos’è la vera cultura e come saziare la sete del sapere. Mi dicesti di scrivere molto tempo fa perché sapevi e mi avevi custodito tu. In fondo non ho fatto altro che seguire il tuo desiderio. Era il nostro modo ed anche adesso che le battute cambiano e il ritmo segue un’altra armonia sento che continuare è un buon modo di rispondere alla sua carezza. Farò cosi e lei mi sorridera’… Sorrideva sempre.

mercoledì 5 giugno 2019

VIA DOMENICO COSTANTINO

Sono nato nella tarda mattina di 69 anni fa, a Palermo in via D.Costantino al num. 16, una parallela della via Notarbartolo. Sono nato a casa di mio nonno Vincenzo perché allora era questa la consuetudine assieme a tante altre ormai svanite nel tempo. Quella casa la ricordo bene, sento ancora l’odore buono del tabacco che don Vincenzo fumava seduto nell’ampia poltrona del soggiorno; la finestra spalancata sul grande giardino della villa del barone Pottino. Di alcune cose la memoria non ci lascia mai, sopravvive in una dimensione a se stante, indipendente da tutto. Lo sguardo d’acciaio di mio nonno e le sue mani enormi ad alzarmi il mento quando combinavo qualcosa fanno parte di essa. Concretamente non c’è più nulla di loro e di quel mondo; la camiciaia in via G. di Marzo se n’è andata 20 anni fa, le sue camicie su misura erano l’unica cosa che faceva sorridere don Vincenzo…le camicie in purissimo cotone bianco e forse qualcos’altro. Ricordo mia madre, un tempo lontano per entrambi - Ho il cuore scuro - mi diceva certe mattine. Ed io - Perché?-
- Per niente - mi rispondeva, ma poi si correggeva - Per i ricordi -
Adesso sto qua e in cento altri luoghi; mi appartengono tutti e non ce n’è uno che non mi sfugga. Ho visto girare il sole sul cortile della mia vita e non mi è piaciuto: ma la luce di questo tramonto placido riesce ancora ad inebriarmi. Una vera cittadinanza però non riesco a trovarla o, forse, non mi basta questa isolana. I siciliani stanno aggrappati orgogliosamente alle loro coste ma guardano fuori in un impossibile desiderio di comunione. Oggi mi deve bastare il mio riflesso sulla vetrina del negozio in via Libertà: a lui confesso la mia incredulità, li ho compiuti davvero! E’ bastato distrarsi un attimo, una piccola svista e l’anno in più è già qui…e io non sono preparato. Non lo sono stato mai.

lunedì 3 giugno 2019

VENDICARI

Cosa ho fatto? Ho allontanato il virtuale e riavvicinato la libreria, lo stereo e la carta stampata. I post sono stati già tutti scritti, non prendetela come un atto di suprema arroganza ma è così: a 65 anni vissuti intensamente e in luoghi e contesti diversi se si scrive si scrive di tutto. D’amore, di vita, di lotta, vittorie e sconfitte, futuro filtrato dal passato e non è detto che sia uguale al vostro. Sto rileggendo la recherche du temps perdu di Proust, la Ladra di libri di Zusak, i Vicerè di De Roberto, il contesto di Sciascia e l’Isola senza ponte di Collura, ho riacceso lo stereo e ascolto Gaber, Fossati, De andrè, Mina, Mozart, Bach e Duke Ellington (ma ce ne sono altri pronti a partire). Ogni tanto acquisto un quotidiano e me ne pento. Mi guardo morire dandomi un contegno: penso alla bellezza della vita e dei sentimenti e il tempo scorre. Non sento il bisogno di scrivere, di incazzarmi, di disquisire come un forsennato con chi vive su un altro pianeta. Teniamoci stretti ognuno il nostro. Riguardo quello che ho scritto negli ultimi ventanni, non è malaccio. Alcune cose sono così legate alla mia intimità che adesso mi meraviglio di averle palesate in pubblico: forse molti problemi sono nati da questo eccesso di confidenza, ma non ho mai saputo scrivere diversamente. Domani scendo sotto Siracusa, piano piano, mi fermo dalle parti di Vendicari, scelgo un eucalipto frondoso mi appoggio al suo tronco e mi perdo sulla linea azzurrina del mare. Voi non potrete vedermi ma sorriderò.