Quando mi chiedono dove sbagli Greta Thunberg, o qual è il difetto del suo metodo, rispondo che il suo problema è lo stesso di quello di autori come Ilan Pappé o Mauro Biglino: cattiva epistemologia. Nello specifico, tre errori ricorrenti:
1. Culto dell’autorità – Molti attivisti ormai argomentano ricorrendo a un "lo dice Greta", come se la sua figura avesse un’infallibilità dogmatica. Allo stesso modo, Greta stessa cita studi e ricercatori in modo selettivo, attribuendo loro conclusioni spesso più nette di quelle realmente sostenute dai dati.
2. Bias di conferma – Greta è partita da una tesi predefinita ("il disastro climatico è imminente e colpa dell’uomo") e ha raccolto solo le evidenze che la confermassero, ignorando le sfumature e le voci critiche.
3. Cherry-picking – Si prendono i dati che supportano la narrazione catastrofista (es. eventi meteorologici estremi, aumento delle temperature) mentre si trascurano quelli che la indebolirebbero (es. miglioramenti nell’efficienza energetica, riduzione della povertà globale, adattamento tecnologico).
Il catastrofismo ambientalista come nuovo millenarismo
Ma il problema non è solo metodologico: è anche culturale e psicologico. Il movimento di Greta, Extinction Rebellion e simili ripropone, in chiave moderna, lo stesso millenarismo che abbiamo visto con le paure dell’anno 1000 o con l’isteria del Millennium Bug.
È una visione del mondo in cui:
La fine è sempre vicina (se non fermiamo le emissioni entro il 2030, sarà la catastrofe);
La colpa è dell’uomo (antropocentrismo morale, dove l’umanità è un male da redimere);
La salvezza è possibile solo attraverso un’azione radicale (decrescita, abbandono dei combustibili fossili, cambiamento degli stili di vita).
A questo si aggiunge una forte componente salvifica: l’attivista non lotta solo per una causa, ma per redimere il mondo, ponendosi come paladino di una moralità superiore. È un atteggiamento che ricorda certi movimenti religiosi o, più recentemente, il populismo moralista di certa sinistra radicale (si veda il movimento pro-Palestina, dove l’urlo sostituisce l’analisi).
Due considerazioni per smorzare l’isteria
Primo: la Terra ha già affrontato catastrofi ben peggiori.
66 milioni di anni fa, un meteorite grande come l’Himalaya colpì la Terra, rilasciando un’energia pari a migliaia di arsenali nucleari moderni.
L’inverno nucleare che ne seguì durò un secolo, eppure la vita non scomparve. Anzi, quell’evento permise ai mammiferi di prosperare.
E non fu neppure la prima estinzione di massa: il pianeta ne ha superate almeno cinque, dimostrando una resilienza che il catastrofismo ignora.
Secondo: le soluzioni non sono mai semplici né univoche.
Il clima è un sistema caotico e complesso, influenzato da fattori astronomici, geologici e sì, anche antropici.
Pretendere di controllarlo con misure punitive (tasse sul carbonio, divieti) è ingenuo quando non controproducente.
L’ambientalismo radicale, invece di proporre soluzioni tecnologiche (nucleare, geo-ingegneria, innovazione), preferisce colpevolizzare il singolo ("non prendere l’aereo"), alimentando solo un senso di superiorità morale.
L’ambientalismo ha bisogno di meno urla e più scienza, Greta e i movimenti affini hanno il merito di aver portato l’ambiente al centro del dibattito, ma il loro approccio è controproducente:
Urla invece di analizzare (il tono è sempre apocalittico, mai razionale).
Mobilita le masse, ma le indirizza verso soluzioni inefficaci (il greenwashing politico invece che l’innovazione reale).
Trasforma l’ecologia in una religione, dove chi dissente è un "negazionista" e chi obbedisce è un "salvatore".
Se vogliamo un ambientalismo serio, dobbiamo superare il moralismo e tornare a parlare di scienza, tecnologia e adattamento — non di colpa e redenzione.
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