Trovare qualcosa per riempire il vuoto che riapriva scenari così lontani da non considerarli più personali, ecco cosa doveva fare assolutamente. Il vuoto si allargava e lui lo guardava immobile. Scrivere! Scrivere era la terapia giusta: lo aveva pensato quasi per sbaglio, non ci credeva fino in fondo. Scriveva da sempre senza pensarci, come un gesto fisiologico, solo un aspetto dell'omeostasi più vasta che governava la sua vita.
E’ proprio uscendo da questa mia dimensione di blogger che avverto la caduta. Dentro queste stanze familiari che conosco a menadito, dentro questo riflesso immutabile e senza età non vivo conflitti dannosi o insormontabili. Da fuori la percezione dell'inutilità del tutto combatte ogni giorno con la necessità e la bellezza dell'esistenza e ogni tanto si esce sconfitti. Scriverlo è esorcizzare il pericolo e la morte. Ho sempre scritto, fin da bambino ai tempi delle elementari, quelle del grembiule nero e il fiocco azzurro; scrivevo per istinto naturale non per un vezzo costruito o amplificato, scrivere era il mio mondo e anche la mia oasi, la scrittura mi veniva così, fluiva sotto lo sguardo attento di mia madre. La professoressa del Liceo osservava con un misto di piacere e apprensione tutto questo, non influiva per nulla ma leggeva poi tutto scuotendo di tanto in tanto la testa. Mia madre insegnava lettere e filosofia, mio padre matematica e materie commerciali, io avevo la casa piena di libri e probabilmente è stata la lettura a portarmi precocemente alla scrittura; credo che alcuni libri siano giunti troppo presto, ai 13 14 anni avrei dovuto dedicarmi di più ai fumetti e al pallone come i miei coetanei che dell'Italia conoscevano solo la pianura e al massimo il Ticino. Io comunque scrivevo, carta e penna, taccuini e agende, cose così perchè i tempi erano quelli e mi stava benissimo.
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