Sui social, l’élite intellettuale si mostra spesso più faziosa che lucida. E quando crolla il rigore, resta solo la propaganda in cattedra. I professori universitari italiani, almeno sulla carta, dovrebbero essere il baluardo del pensiero critico, del metodo, del rigore. Eppure, basta aprire X (ex Twitter) per vederli esibirsi in performance imbarazzanti, spesso fuori fuoco rispetto alle loro stesse discipline. Peggio ancora: travolti da bias ideologici così evidenti da far impallidire perfino i politici più smaccati.
Economisti che parlano come sindacalisti. Filosofi trasformati in opinionisti di talk show. Giuristi che confondono il diritto con la morale militante. Il social dell’uccellino – oggi convertito alla "libertà d'espressione" tanto cara a Musk – ha scoperchiato un vaso di Pandora: quello dell’accademico italiano fuori controllo.
Il problema non è il pensiero, ma l'ideologia travestita da scienza Nel momento in cui il docente universitario si butta nell’arena digitale, spesso lo fa rinunciando proprio a ciò che lo legittima: il metodo. Non argomenta, twitta e in alcuni casi ritwitta post scandalosi. Non problematizza, accusa. Non approfondisce, seleziona frammenti funzionali alla propria tesi.
Un esempio su tutti? La guerra in Medio Oriente: decine di accademici italiani hanno preso parola non per analizzare i fatti con competenza, ma per tifare, spesso disinformando. Che si tratti del conflitto israelo-palestinese, della guerra in Ucraina o dei temi ambientali, ciò che colpisce è l’assoluta incapacità di separare il proprio posizionamento politico dalle fonti e dai dati. Molti di questi docenti – pubblici, stipendiati dalla collettività – mostrano di non conoscere nemmeno la differenza tra una fonte diretta e una narrativa filtrata. Retwittano video decontestualizzati, si affidano a influencer e youtuber anziché a documenti ufficiali, citano ONG senza verificarne i legami. È il trionfo della pigrizia intellettuale travestita da impegno civile. Le figure peggiori? Proprio nelle discipline di competenza E qui sta il paradosso.
Non è quando i professori parlano fuori ambito che fanno le figure peggiori: è proprio dentro le loro aree che spesso mostrano il peggio. Il giurista che scambia il principio di legalità con il proprio moralismo. Il linguista che usa l’autorità accademica per giustificare forme di censura lessicale. Lo storico che riscrive gli eventi con una chiave di lettura monocorde, buona per ogni stagione: fascismo e antifascismo. Il problema non è “che parte stanno”. Il problema è che hanno smesso di distinguere la parte dall’analisi. E se il professore diventa influencer, l'università rischia di diventare una succursale dei social, dove conta più il like che la logica.
Università come zona franca del pensiero critico? Non più Un tempo l’università era il luogo in cui si imparava a dubitare, a smontare tesi, a costruire ipotesi contrarie. Oggi sembra diventata il posto dove si insegna a militare. Il danno è doppio: formativo per gli studenti e culturale per la società. Perché se i professori cedono ai bias, chi formerà una classe dirigente capace di ragionare? Se la scienza è piegata al sentimento politico, dove finisce il confine tra verità e attivismo?
Il sapere deve tornare sobrio I professori italiani – e anche quelli oltreoceano – farebbero bene a spegnere X, almeno per un po’. E a tornare a studiare, ad analizzare, a dubitare. Nessuno pretende che sappiano tutto: l’umiltà è parte integrante del sapere.
Ma quando l’ideologia ti ha forgiato da giovane, liberarsene da adulto diventa impresa ardua. E il rischio è quello di confondere ancora una volta militanza e scienza. Il pensiero critico non si misura a follower né a thread virali. E senza il coraggio di rimettere in discussione i propri dogmi, anche il sapere accademico diventa solo una fede travestita da lezione. Il rispetto per l’università si riconquista con la serietà, non con la visibilità. Perché quando il docente diventa tifoso, smette di essere guida. E senza guide credibili, anche la verità diventa un hashtag.
Luigi Giliberti
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