Di recente, parlando con un amico della crescente ondata di antisemitismo nel dibattito pubblico, mi ha colpito una sua osservazione:
"Mi pare che l’odio antisemita oggi sia particolarmente forte tra le persone politicizzate, e molto meno diffuso nel resto della popolazione."
Per "politicizzati", intendeva coloro che fanno attivismo, che si muovono dentro le dinamiche ideologiche del presente, spesso iperconnessi, immersi nei codici simbolici del loro gruppo. E qui sorge un problema più ampio: anche la parola "politicizzato" sta subendo una torsione semantica, sintomo di una trasformazione più profonda nel modo in cui concepiamo la politica stessa.
Cosa significa davvero "politica"?
La parola politica deriva dal greco politikós, cioè “relativo alla pólis”, la città-stato. Il suo corrispettivo latino è civicus, da cui "civico". In origine, dunque, la politica era l’arte della convivenza civile, dell’organizzazione del vivere comune, dello spazio condiviso.
Era il luogo in cui i cittadini discutevano, deliberavano e agivano per il bene collettivo, non solo per affermare sé stessi o il proprio gruppo.
Ma oggi, sempre più spesso, la parola “politica” è svuotata del suo significato civico e riempita di appartenenza ideologica.
Essere politicizzati non significa più partecipare alla vita pubblica in modo critico e responsabile, ma identificarsi con una fazione e ripeterne fedelmente i dogmi.
Una religiosità secolarizzata.
Quel che vediamo in molte aree del discorso pubblico non è un’autentica coscienza politica, ma una religione laica:
con i suoi dogmi (le verità non negoziabili del proprio campo),
i suoi riti (gesti, parole, hashtag, schieramenti da esibire pubblicamente),
i suoi santi e demoni (leader intoccabili e nemici assoluti),
e la sua morale (che non si fonda più sul bene comune, ma sulla purezza ideologica).
In questo contesto, l’antisemitismo — come altre forme di odio — non nasce tanto dall’ignoranza, quanto dalla narrazione binaria del mondo: una visione che divide tutto in buoni e cattivi, in vittime assolute e carnefici eterni, dove chi è identificato come "nemico" va demonizzato, isolato, cancellato.
Questo meccanismo, che Spinoza avrebbe forse definito come una passione triste, produce una politica fatta non di responsabilità, ma di risentimento. Non di progetto, ma di esclusione.
Recuperare il senso civico della politica
Se vogliamo contrastare questa deriva, dobbiamo ribadire un principio semplice e potente:
la politica non è una fede, ma un metodo.
Non è un’identità tribale da esibire, ma uno strumento per affrontare problemi reali.
Essere politicizzati non dovrebbe significare allinearsi a un’ideologia, ma impegnarsi per la città, intesa come spazio condiviso di dialogo e di responsabilità.
Forse, allora, il vero antidoto all’odio — antisemita o di altra natura — non è meno politica, ma più politica nel suo senso autentico:
quella del confronto razionale, del pluralismo, della mediazione.
Quella che costruisce ponti, invece di alzare muri.
Quella che riconosce l’altro non come un nemico, ma come un concittadino con cui è ancora possibile parlare.
In tempi in cui la politica si confonde con la fede e la militanza con l’identità, ricordare il valore civile della polis è un atto controcorrente. Ma forse è proprio da lì che può ripartire una politica capace di includere senza idolatrare, di criticare senza odiare, di dissentire senza disumanizzare.
Se davvero esiste, e purtroppo esiste, una nuova ondata di antisemitismo, può riguardare solo persone totalmente idiote, e gli si fa solo omaggio ad inserirle in gruppi specifici. Certi soggetti vanno semplicemente ignorati. Politicizzati o meno.
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